Prof avv. Alberto Lucarelli
Ordinario di Diritto Costituzionale Università degli Studi di Napoli Federico II
Dott. Andrea Eugenio Chiappetta
Dottorando in Diritti Umani Università degli Studi di Napoli Federico II
Nel corso del Consiglio dei ministri del 10 ottobre 2024, il Governo Meloni ha approvato il c.d. d.l. Ambiente n.153.
Nella discussione in corso all’ 8° Commissione del Senato è stato
presentato un emendamento, il 3.22, da parte del senatore Parodi che
interviene sull’affidamento del servizio idrico e, in specifico, aprendo la strada alla partecipazione di soggetti privati nelle società a totale capitale pubblico, così dimostrando l’insensibilità politica alla volontà popolare, determinando, ancora una volta, l’inattuazione di quanto stabilito dal corpo elettorale,
attraverso il referendum del 2011, sul tema dell’acqua pubblica.
Se tale emendamento fosse approvato, saremmo di fronte ad un percorso che non solo sconfessa la volontà popolare sulla gestione esclusivamente pubblica del bene comune acqua, ma indica ai comuni la via sostanziale dell’inizio di un indirizzo generale di privatizzazione dei servizi idrici.
La portata dirompente della disciplina sui diritti dei cittadini non può essere
compensata dalle previsioni di apparente salvaguardia contenute nei periodi successivi della disposizione.
Le necessità che in caso di affidamento del servizio a società “con
partecipazione obbligatoria di capitali privati”, le stesse debbano avere come
unica finalità “la gestione del servizio idrico integrato”; che il “socio privato,
direttamente o indirettamente, detenga una quota del capitale sociale non
superiore a un quinto” e che al privato “non spetti l’esercizio di alcun potere
di veto o influenza determinante sulla società”, non appaiono elementi
sufficienti a giustificare la scelta operata dal Governo e assicurare una buona gestione della risorsa.
L’indirizzo politico è chiaro: dare avvio ad una stagione prodromica alla
privatizzazione delle fonti idriche e dei relativi servizi.
Difatti, consentendo l’affidamento dei servizi idrici integrati a società “con
partecipazione obbligatoria di capitali privati” si cerca, incontrovertibilmente,
di incentivare i comuni ad adottare tale modello, i quali sarebbero spinti a tale
scelta dall’apparente motivo finanziario inerente il risparmio di spesa per le
casse pubbliche: nulla di più sbagliato.
Molte società a partecipazione mista prevedono un contributo rilevantissimo
della parte pubblica a fronte di un marginale contributo privato, il quale, pur
essendo ridotto in portata, consente però alla parte privata di procedere
all’incasso di dividendi altissimi, attraverso il minimo sforzo d’investimento.
Ancora, la scelta di prevedere l’affidamento del servizio a società composte da
un socio privato non consente di assicurare un servizio efficiente, uguale,
universale ed efficacie, improntato all’economicità e ai bisogni pubblici, così
come previsto dalla Costituzione (se d’interesse, A. LUCARELLI, La Corte
costituzionale dinanzi al magma dei servizi pubblici locali , in Giur. cost., 6,
2010).
È chiaro che, a differenza del socio pubblico (che non persegue lo scopo
dell’utile), quello privato avrà tutto l’interesse a non reinvestire nel servizio
idrico quanto ricavato, ma ad incassarlo, così procedendo a generare riverberi
sulle tariffe delle bollette, e sull’efficienza generale del sistema.
Diventa allora ininfluente, sul funzionamento sociale, il fatto che il socio
privato “detenga una quota di capitale sociale non superiore a un quinto” e
che al privato “non spetti l’esercizio di alcun potere di veto o influenza
determinante sulla società”. Ebbene, seppur non vi dovesse essere formalmente
il riconoscimento di tale potere, sul piano della fattualità, come spiegato
appena sopra, le cose potrebbero seguire un diverso decorso.
Pur non potendo detenere quote sociali superiori ad un quinto e, quindi, non
poter formalmente incidere sull’assetto sociale, il socio privato, attraverso le
sue (legittime ma profittevoli) scelte potrà comunque finire per condizionare la
qualità del servizio erogato, con enorme impatto sui diritti dei cittadini.
Peraltro, anche in punta di diritto interno ed euro-unitario si rilevano profili
di illegittimità.
La giurisprudenza amministrativa, civile ed europea ha più volte evidenziato
come, per procedere ad affidamento diretto nei confronti di una società,
costituendo l’affidamento senza gara una deroga al regime della concorrenza
(sul punto, per tutti, cfr. caso Teckal, Corte giust. UE, 18 novembre 1999,
causa C-107/98) occorra che l’Ente pubblico possa esercitare un “controllo
analogo” a quello svolto sui propri servizi (ex multis, Cons. Stato, Ad. Plen., n.
1/2008).
Nella specie, il controllo analogo null’altro è che l’influenza “determinante sia
sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata”
(art. 2, comma 1, lett. c), d.l.vo, n. 175/2016).
Viene così ad essere individuata, nel testo unico sulle società a partecipazione
pubblica, una categoria da salvaguardare ben più ampia del mero divieto di
riconoscimento formale dell’esercizio di poteri di “veto o influenza
determinante sulla società”, così come introdotti dalla nuova normativa sul
servizio idrico.
Poiché la società in house dovrebbe essere, in sostanza, “un braccio operativo
della pubblica amministrazione, nei cui confronti la medesima esercita i poteri
di direzione, vigilanza, controllo e indirizzo della gestione, del tutto simili ai
poteri tipici di diritto amministrativo esercitati sui propri uffici e organi” (v. C.
conti, Sez. reg. contr. della Lombardia, n. 15/2015/PRSE), è chiaro che una
società aperta ai privati, la quale dovrebbe gestire la governance del servizio
idrico non potrebbe, per i motivi anzidetti, perseguire tale finalità.
E, di fatti, la valorizzazione della particolarità del caso, nell’apprezzamento
della valutazione sul controllo analogo, sembra essere confermata dai più
recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, i quali hanno asseverato
come, il controllo analogo, non sia “un elemento rigido e uniforme, trovando a
ben guardare il suo nucleo nell’aggettivo “analogo”, che non solo impedisce
l’identificazione di questo tipo di controllo con il controllo che la pubblica
amministrazione esercita sui suoi uffici e sulle sue branche stricto sensu, ma
pure lascia intendere che l’analogia si commisura di caso in caso, cioè sussiste
attraverso una forma variante che deriva dalle caratteristiche specifiche del
soggetto da sottoporre al controllo analogo” (cfr. Cass, ss. uu. civ. n.
20632/2022).
Tutto ciò considerato, rimane ferma la necessità che la governance dell’acqua
(come di tutti i beni comuni) rimanga fuori dalle logiche di mercato,
discutendosi di un bene fondamentale, oltre che presupposto necessario per la
vita stessa; specie oggigiorno, in un contesto ambientale di forti cambiamenti
climatici e crisi idrica.
Napoli, 23 novembre 2024
Prof. Avv. Alberto Lucarelli
Dott. Andrea Eugenio Chiappetta